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L’ANCORA  DI  SANTA  ROSALIA
(Racconto di Salvatore Pillitteri, detto “Totò” a don Gaetano Ceravolo *)
(Per chi utilizza queste informazioni chiediamo di citare la fonte: http://www.santuariosantarosalia.it/l7/ )

 

“ANCORA di S. ROSALIA”.
Così è chiamata dal popolo la grande ancora che si trova accanto al pozzo all’interno del Santuario.
Accanto ad essa sono posti dai fedeli gli “oggetti ex-voto” e tanti sono curiosi di sapere la sua vera storia .
Nell’Ottobre del 2011, Salvatore Pillitteri, abitante nel Quartiere di Montepellegrino ci fa sapere che l’ha portata quì suo nonno Filippo e ce ne racconta la storia. 

STORIA DELL’ANCORA DI S. ROSALIA

Quella che sto per raccontare è una storia di dolore, di sacrificio, di onore, ma soprattutto di grande fede e di gioia.

Il sottoscritto, le mie sorelle e due mie cugine, siamo gli ultimi ad avere conosciuto dal vivo il protagonista di questa storia sconosciuta ai più, che poi è entrata nella leggenda.

Mi piacerebbe però che i nostri eredi, entrando nell’antro della grotta di Santa Rosalia a Monte Pellegrino a Palermo e guardando la grande ancora appoggiata sulla parte destra della parete rocciosa, ricordassero: “Questa ancora è parte della storia della nostra famiglia”.

Io ero l’unico figlio maschio della famiglia, composta da mio padre, mia madre, le mie sorelle ed i miei nonni materni, Filippo Davì e “Marietta” che vivevano con noi. Ero il gingillo di mio nonno che mi amava profondamente e passava con me tutto il suo tempo libero e quando non costruiva i suoi modellini di navi ricavati da legno pieno con gli alberi e le sartie al posto giusto e i fumaioli ricavati dai rotoli di cartone delle “spagnolette” debitamente pitturate, mi prendeva sulle gambe e mi raccontava le sue avventure vissute sui mari di tutto il mondo con tale enfasi e dovizia di particolari, che io li vivevo come in un film, e nella mia mente di bambino mi ritrovavo protagonista di tali storie.

Una in particolare attirava la mia fantasia e lui con tanta pazienza, ma anche perché non gli dispiaceva, me l’ha raccontata centinaia di volte.

Eravamo già alla fine della prima guerra mondiale e l’Italia era parte dell’asse che vedeva Francia ed Inghilterra avversari dei tedeschi. Mio nonno Filippo era nostromo su una nave mercantile che però si occupava di portare truppe e materiali per i nostri soldati al fronte tra le coste francesi e quelle italiane.

Il mare era tranquillo, e tranquilla sembrava la navigazione. A bordo ognuno era impegnato nei loro lavori di routine, mentre alcuni marinai di guardia scrutavano l’orizzonte per segnalare in tempo altre presenze di navi in quel tratto di mare.

All’improvviso il silenzio fu squarciato da un boato assordante. Lo scoppio fece tremare la nave da prua a poppa. Era stata colpita in pieno la sala macchina, che prese fuoco. I macchinisti rimasero uccisi all’istante e i pochi superstiti uscirono in coperta feriti ed ustionati gravemente.

Mio nonno, nostromo di coperta, mentre li aiutava si guardava intorno cercando di capire chi avesse sparato sulla nave, quando a dritta, a circa mezzo miglio, emerse la figura sinistra di un sommergibile tedesco che, una volta rimessosi in assetto di tiro, lanciò un secondo siluro sotto la linea di galleggiamento verso poppa. Fu centrata la cassa della nafta, che prese fuoco subito.

La nave era perduta, cominciò ad inclinarsi sul lato sinistro. I morti si contavano ormai a decine, e il caos era generale. Si cercava di calare le scialuppe di salvataggio, ma su quattro, solo una poté essere messa in mare.

Ci si buttava in un’acqua piena già di gasolio infiammato per raggiungerla, e aiutando i feriti più gravi si trassero sulla piccola imbarcazione compreso mio nonno che era quello più alto in grado.

La nave affondò nel giro di pochi minuti, l’U-Boot tedesco si inabissò dopo avere compiuto la sua missione di morte e tutto tornò tranquillo lasciando quella ventina di uomini, tra cui molti feriti gravemente, al loro destino.

La scialuppa era troppo piccola per tutte quelle persone ed il mare arrivava al suo bordo.

Le razioni di gallette e di acqua vennero centellinate tra tutti, ma finirono presto. Alcuni uomini morirono per le ferite riportate e furono sepolti in mare, zavorrati, con una breve preghiera.

La disperazione si fece tangibile, i giorni passavano senza che si vedesse un’imbarcazione che potesse aiutarli.

Il sole caldo di giorno, il freddo della notte e la mancanza di acqua potabile portarono gli uomini in uno stato di semicoscienza, preludio di una morte per inedia.

Dopo molti giorni, una mattina, mio nonno emerse dalla sua apatia gridando alla ciurma che aveva avuto in visione Santa Rosalia, la Patrona di Palermo, cui era devotissimo, che con voce dolcissima e rassicurante gli diceva di avere forza e fede perché in giornata sarebbero stati salvati.

L’ottimismo fece presa su quei pochi malconci superstiti. Pregarono tanto e giurarono solennemente che se la visione si fosse tramutata in realtà avrebbero portato in processione un’ancora di bronzo sino alla grotta di Santa Rosalia, a Monte Pellegrino, come ex voto.

La nave arrivò e, tra grida e pianti di gioia, furono salvati.

La “prommissione” si concretizzò, ma non subito. Passarono infatti sedici anni e il perché è storia.

Subito dopo la guerra la strada che, dalle falde portava alla grotta, era una: quella ciottolata costruita tra il 1674 e il 1725, dopo il ritrovamento delle ossa della Santa, dai galeotti mandati ai lavori forzati per scontare le loro malefatte, però troppo ripida, stretta e con curve a gomito che impediva l’accesso di uno “strascino” trainato da cavalli normanni con su un’ancora di diverse tonnellate.

Si dovette aspettare il 1924 che si ultimasse la nuova strada carrabile, che in certi punti si interseca con la vecchia, e poi che si riunissero tutti i reduci, si raccogliessero i fondi e si costruisse l’ancora.

Era il 1934 quando finalmente giunse col carro dentro la grotta. Si costruì un traliccio di legno e con un sistema di verricelli e corde di canapa fu sollevata e appoggiata alla parete, la dove si trova ancora oggi.

Una disattenzione però provocò un urto ed una punta dell’ancora  si ruppe  e gli  fu  appoggiata  accanto.

La grande fede ancora una volta aveva trionfato su quei miracoli che arrivano forse perché dovuti e poi inesorabilmente entrano poi nel dimenticatoio. 

Ho scritto questa breve storia con gli occhi umidi per la commozione perché, mentre la scrivevo, mi rivedevo bambino sulle ginocchia di mio nonno che me la raccontava.

Dico io “a futura memoria” poiché, i discendenti ed i miei eredi, non la dimentichino. 

Mio nonno Filippo Davì, nostromo, morì il 25 luglio 1958 giorno del mio settimo compleanno.

14 ottobre 2011

Salvatore Pillitteri, detto “Totò”

 (P.S.: Avrei voluto essere più preciso circa i dettagli della vicenda riguardanti soprattutto l’affondamento, come il nome della nave o la data precisa, ma purtroppo non li ho mai saputi, e ogni mia ricerca è stata vana. Tutto è stato affidato, come ogni leggenda che si rispetti, alla memoria: prima quella di mio nonno e poi alla mia. Di queste lacune chiedo scusa!)

(* don Gaetano Ceravolo, studioso di S. Rosalia e del Santuario – Cell 3398706117)

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