MENU

News

L’Arcivescovo apre le porte a tutte le Religioni e a tutti i popoli

Palermo città di pace, dialogo e fraternità

Palazzo Arcivescovile – Salone Filangieri, 10 luglio 2023

      Care Amiche, Cari Amici,

vi dico anzitutto e di cuore: benvenuti! Benvenuti in questa casa che come ogni anno ci raccoglie nella gioia e nell’amicizia. Vorrei abbracciare tutti, indirizzare a ognuno di voi un saluto affettuoso. Ci ritroviamo qui, di anno in anno, in maniera diversa ma per il medesimo motivo. Scegliamo ancora una volta di porre insieme un segno di comunione e di pace, di fronte a tutte le barriere e a tutte le divisioni che mirano ogni giorno a rendere il mondo un luogo inospitale e senza speranza.

I motivi di disperazione e di sconforto appaiono infatti preponderanti in questo nostro tempo. La guerra in Ucraina sembra essere entrata in una fase di stallo, come se tutto fosse avvolto in una spirale di violenza priva di concrete prospettive di novità e di pace, mentre milioni di persone continuano a soffrire e a vivere nell’angoscia del dolore incipiente, della morte a ogni istante, e il rischio che vediamo è che questo stallo finisca per anestetizzarci anziché renderci ancora più partecipi dinanzi all’insostenibilità dell’orrore che prosegue. Questa guerra emblematica, portata nel cuore dell’Europa, è solo una delle tante guerre che affaticano il cammino dell’umanità. Penso alle guerre africane, alla guerra sanguinosa del Congo, ma anche a quelle che si combattono in Nigeria, in Etiopia, in Somalia, in Burkina Faso, in Mali, in Sudan (e in particolare in Sud Sudan), nella Repubblica Centrafricana, in Niger, in Mozambico, in Camerun. Penso ai conflitti in Iraq e in Siria, dove la sofferenza indicibile della gente dura da anni. Penso alla Colombia. Penso ai luoghi in cui sono attive crisi interne pesantissime. Basta volgere il pensiero alle donne e a tutto il popolo afghano; a tutti coloro che lottano per i diritti umani in Iran, anche in questo caso a riflettori spenti, senza più l’aiuto di un movimento internazionale d’opinione; alla situazione del Myanmar; al conflitto più lungo e significativo accesosi a tre anni dalla fine della Seconda guerra mondiale e ancora drammaticamente attivo: [dico] il conflitto israelo-palestinese. Penso alla guerra quotidiana occulta, la guerra che non abbiamo il coraggio di chiamare guerra perché a combatterla in mare è proprio la nostra Europa, sono i paesi ricchi del vecchio Occidente, siamo noi insomma: è la guerra contro migliaia e migliaia di poveri migranti, di uomini, donne e bambini rinchiusi, dopo un viaggio apocalittico, nei campi di concentramento libici, lì torturati, stuprati, trattenuti e, una volta in mare, respinti o lasciati morire senza pietà dai nostri Stati, antiche patrie del diritto e del dialogo tra le persone.

Siamo qui stamattina, davanti all’immagine di questo mondo lacerato, con un senso di grande realismo, per non occultare nessuna verità. Queste guerre, questi conflitti non sono nulla di naturale e di inevitabile. Ne conosciamo perfettamente le cause: il possesso delle risorse e dell’energia, la difesa delle economie più avanzate, la pressione demografica, gli interessi dell’industria della guerra e delle armi, i cambiamenti climatici che, accanto alle consapevolezze emergenti, stanno generando inediti preoccupanti interessi di natura economica e politica, destinati a generare nuovi drammatici squilibri. Sono cause enormi, apparentemente indominabili. Ma sono cause umane. Questo vuol dire che non si tratta di eventi del destino, ma di esiti di precise scelte degli uomini.

Sembra fuori luogo, o fuori moda, ricordare quel che noi vogliamo ricordare stamattina. E cioè che le crisi, i conflitti sanguinosi, le guerre sono il frutto di deliberazioni umane, di decisioni – come quella che ha scatenato infine la guerra in Ucraina o ha abbandonato alla deriva il barcone di Cutro o di Pylos nella costa greca – [decisioni, dicevo] poste in essere da parte di soggetti liberi e dotati di ragione. Sembra un paradosso. Eppure questo non ci deve scoraggiare, bensì deve spingerci a cambiare.

Care Amiche, Cari Amici, siamo qui a rappresentare tante fedi religiose diverse e diversificate: ebraica, cristiana, musulmana, induista, buddista, di tante culture e popoli. Tutte le nostre fedi sono accomunate – come è proprio di ogni esperienza religiosa – dall’appello alla verità e all’interiorità dell’uomo, dalla richiesta di un’obbedienza vitale a un’istanza più alta, con un’adesione intima, convinta. Un profondo mutamento interiore, insomma, che si traduce in uno sguardo diverso sulle cose. È in nome di questa esperienza condivisa che stamattina ci riuniamo guardando insieme al dolore del mondo. Per dire che il cambiamento è possibile. Che crediamo nell’energia di bene che alberga nel cuore di ogni uomo e che può trasformare quel che pare immutabile. Crediamo nel ripensamento, nel ritorno in sé stessi, nel contatto con la parte più profonda dell’anima.

Ci si potrebbe obiettare: ma pensate davvero che sia possibile che i ricchi non opprimano i poveri, che si blocchi il climate change, che i signori delle armi fermino le loro industrie di morte, che Putin e Zelenski possano sedersi ad un tavolo di negoziazione, che israeliani e palestinesi, segnati da una tale scia di sangue e di odio, possano trovare un punto di incontro? Non è una pura fantasia? Ecco, a questa obiezione noi rispondiamo fermamente di no!

Lo facciamo perché abbiamo creduto in Qualcuno o in Qualcosa che ha cambiato e continua a cambiare la nostra vita e la nostra visione della vicenda umana. Lo facciamo perché abbiamo visto che è possibile scegliere diversamente, è possibile convertirsi, dare cioè una sterzata alla propria esistenza orientandola in una maniera nuova, scommettendo sull’invisibile. La religione autentica – lo sappiamo e tentiamo di viverlo – non è pura forma, esibizione di identità, adozione di pratiche mute. È coinvolgimento vitale, ricerca di autenticità, cammino di pace interiore, volontà di comunione tra fratelli e sorelle. Se non è questo – come tutti noi spesso affermiamo – la religione non è nulla. Se si fa vessillo di un popolo in guerra contro un altro popolo, se si fa strumento di conflitto e di separazione, essa perde la propria dignità. Una religione così non ha né senso né futuro. Nell’atteggiamento religioso autentico c’è invece il seme della libertà e della novità, attinto nel profondo di noi stessi. E noi siamo convinti che quel seme sia in tutti, che si possa operare ogni giorno perché donne e uomini che ne hanno la responsabilità cambino con le loro decisioni il corso delle cose.

Crediamo possibile che i vertici della nostra Europa smettano la loro politica di crudeltà autodistruttiva verso i poveri del mondo e facciano nuovamente delle nostre sponde uno spazio di accoglienza e di diritti. Crediamo possibile che quanti hanno la responsabilità del governo operino in Russia e in Ucraina perché ci sia una pace giusta e duratura. Crediamo che ci possa essere un governante israeliano toccato dalla manifestazione brutale della violenza nei territori occupati, messo in crisi di fronte ai progetti di espansione coloniale, e dica no! Crediamo che i produttori di morte possano fermarsi. Crediamo che le donne e gli uomini della mafia e della droga, ferite drammatiche della nostra Palermo, che stanno tornando a instaurare un clima di sfiducia, timore ed enorme sofferenza nella nostra città, possano riprendere la via della dignità e della giustizia. Lo crediamo perché tutti costoro sono umani, perché possono rientrare in sé stessi e dire: questa vita dedita allo sfruttamento dell’altro, al profitto privo di scrupoli, all’annientamento della terra e dei fratelli e delle sorelle, non è una vita vera, buona. È un’amara radice di assenzio che non nutre e non sazia.

Non lasciamoci fuorviare. C’è una quotidiana esperienza del bene, dell’aiuto reciproco, della sensibilità verso l’altro, che vediamo all’opera in ogni parte del globo. Ed è questa energia quotidiana che regge il mondo e a cui le nostre religioni partecipano. Penso a uomini come Biagio Conte, come don Pino Puglisi, che in forza della loro fede hanno scelto di alimentare la fiamma dell’amore, di fare della loro vita uno spazio di incontro e di verità, fino alla fine, fino al dono totale di sé soprattutto per i più piccoli e i più poveri. Penso a coloro che in ognuno delle grandi famiglie religiose qui rappresentate stamattina – uomini come Yitzhak Rabin, il Mahatma Gandhi, Abdul Ghaffar Khan (il “Gandhi musulmano”), Jōsei Toda, Giorgio La Pira – hanno operato e continuano a operare nella storia per la pace e la riconciliazione, per una interpretazione umana e pacifica dei nostri credo, delle nostre fedi.

Il punto è – cari amici, care amiche – che la ragione non basta. Abbiamo portato avanti per millenni l’ideale dell’uomo come “animale razionale”. Ma si tratta di un’idea riduttiva se non priva di fondamento. Già Aristotele sapeva che siamo animali, creature viventi, che trovano la loro consistenza, la radice del loro essere, nella relazione con gli altri, nella mimesis, che è appunto rapporto con l’altro, riferimento all’altro come modello e riferimento, necessario per diventare sé stessi. Questa intuizione greca, diversamente declinata, direi che è all’opera in tutte le nostre tradizioni. Essa potrebbe tradursi in una sola espressione: la centralità del cuore e della relazione con l’altro. Siamo umani non perché calcoliamo il mondo attraverso quella macchina gelida che è la pura ragione, ma siamo umani in quanto sentiamo il mondo, sentiamo l’altro ed entriamo in relazione con lui, con lei, con tutti. Senza questa prossimità, che ci accomuna a tutte le creature, senza questo dinamismo del cuore, l’umanità si trasforma in una intelligenza spinta ai limiti del puro artificio. Le nostre tradizioni conoscono questa energia, condividono questa prontezza, si schierano implicitamente dalla parte di un’umanità integrale, fatta di rispetto e di consentimento con l’altro.

È questo verbo che siamo chiamati a portare oggi. L’ho detto altre volte e qui stamattina lo ripeto. Le guerre, i conflitti, le crisi nascono da una sclerocardia, da un Alzheimer dello spirito che impedisce di ascoltare il grido dei morenti e degli “scarti umani” (Papa Francesco), il pianto dei bambini, il lamento di tutta la terra sfigurata. Riattivare il cuore; ri-sentire l’altro; con-sentire con il suo essere e la sua sofferenza; decidere non per calcolo ma per com-passione: sono queste le vie che siamo chiamati a battere e ad annunciare.

Nella Sacra Scrittura, in particolare nel Nuovo Testamento, si parla molto degli splanchna, delle viscere di Gesù di Nazareth. Esse diventano elemento centrale del racconto quando Gesù si trova davanti all’uomo smarrito, dolente, prostrato, sfinito, in preda alla morte. La barca dei discepoli arriva all’altra sponda e Gesù vede una folla in attesa, smarrita, anelante. E sente le sue viscere attorcigliarsi, si sente smuovere nel profondo, perché vede in quella folla l’immagine dell’umanità di ogni tempo, che nella sua nudità aspira alla salvezza, nella sua povertà cerca un senso e una guida, come un bambino può cercare la parola e la guida di un padre. O magari si trova sulla strada, con i suoi discepoli, e incontra un corteo funebre che porta un fanciullo morto, figlio unico di una madre vedova. Gesù si ferma e il Vangelo ci dice che gli si smuove lo stomaco, le viscere vibrano, fino alla commozione, davanti alla distruzione della vita di un ragazzo, e della donna per la quale il figlio era l’unico motivo di vita e di speranza. Anche in questo caso è come un’immagine di tutte le vite spezzate, di tutte le esistenze sconvolte dalla morte degli amati. E Gesù soffre, sente, con-sente. E agisce: per il bene, per la gioia, per la vita.

Credo sia qui il senso del nostro incontro. In questa prossimità della festa di Santa Rosalia che tutti unisce nella ricerca del convivere nella pace e nella giustizia, nel dialogo e nella cura che è il sacro di ogni religione, ne è matrice e destino. La donna che ha deciso di abitare su un monte dal nome Pellegrino, ci invita ad alzare lo sguardo e a pensarci nella Casa comune non stanziali ma pellegrini, capaci di percorrere le strade della vita nella continua ricerca, memoria e condivisione del Bene. Chiamati a bene-dire, a bene-fare. Credo sia qui il senso del nostro incontro di quest’anno. Nel nostro schierarci apertamente per il cuore. Nel nostro dire a tutti che ogni forma di responsabilità e di potere per gli altri e sugli altri, se non è animata da questo sentimento del cuore, da questa sintonia con il dolore, rischia di essere solo una forma di impostura e di prevaricazione. Questo è vero per noi, che ci troviamo indegnamente a servire e guidare donne e uomini delle nostre varie comunità. Ed è vero per tutti quelli che a vario livello sono implicati nella ‘cosa’ politica e sono chiamati a una vita di coerenza, di responsabilità e di decisioni oculate per la collettività, per i popoli di ogni parte del mondo.

Ripartiamo insieme dal sentire la vocazione umana che è camminare insieme, uniti dal prendersi cura dei più deboli e dal contagiare la speranza in un futuro sempre più umanamente vivibile. Sintonizziamoci su questo canale dello Spirito. E il mondo avrà ancora un futuro e una speranza. Perché questo sentire è il fondamento dell’esistenza quotidiana; è il segreto che regge il mondo. Ci sia dato di ascoltarlo e di annunciarlo insieme: stamattina e lungo tutti i nostri giorni. Questa ‘casa del con-venire’ ne sia insieme realtà e metafora. Il nostro incontro fraterno ne sia ispirazione.

Con il cuore grato e accogliente a tutte e a tutti ridico dal profondo: benvenute, benvenuti!

Corrado Lorefice Arcivescovo

photo: Antonio Ferrante, Nicola Vitellaro, Ufficio Stampa Arcidiocesi di Palermo